Cultura

La (falsa) leggenda di fra’ Girolamo e le lacrime di coccodrillo a Monteleone

Un racconto intrigante crea una apocrifa leggenda quattrocentesca vibonese, di riti diabolici e morte, prendendo spunto da un’epigrafe vicina al convento degli Agostiniani Calceati.

“CAVE a lachrymis cocodrilli”, è il testo inciso su una lapide posta in largo Solari del centro storico di Vibo Valentia, scendendo per via Ruggiero dal castello ducale. Letteralmente si traduce in “Guardati dalle lacrime di Coccodrillo”. Che cosa avrà voluto dire e a chi o cosa si riferiva?

Iniziamo dal principio. L’epigrafe è citata dal conte Vito Capialbi in “Inscriptionum Vibonensium Specimen”. Lo storico vibonese la colloca cronologicamente nel XV secolo per motivi linguistici, in quanto risalta subito, anche all’occhio non esperto, che l’incisione non è di età romana. Essa si presenta incisa nel marmo con le lettere messe in risalto con l’inchiostro nero, ed è posta a poca distanza dal luogo in cui sorgeva la porta di sant’Antonio, oggi scomparsa, antico accesso della cinta muraria Sveva-Angioina di Monteleone. Nel Medio-evo era frequente collocare epigrafi e pezzi di statue antiche nelle vicinanze delle porte delle città, cosa che a Vibo è riscontrabile nell’arco Marzano o Lamia.

Secondo la tradizione, la lapide sarebbe stata sistemata per ricordare ai monteleonesi di stare attenti alle “lacrime di coccodrillo” dei duchi Pignatelli che, nel 1508, si impadronirono della città tramite Giovanni del Tufo, trucidando sette capi della rivolta, dopo averli attirati nel castello con la scusa di trattare la resa. Ma, come detto, Capialbi ci dice che la lapide fu realizzata un secolo prima, quindi questa attribuzione cade. E allora? Proprio davanti al luogo dove è posta l’epigrafe sorge il convento degli Agostiniani Calceati (ex carcere) costruito nel 1423. Ci siamo con i tempi, dunque. Può avere a che fare con qualche fatto legato ai monaci. Ed ecco che viene fuori una leggenda che narra di una storia tragica.

Ecco la storia. Nel convento, verso la metà del 1400, arriva un monaco, tale frà Gerolamo, tipo scontroso e irascibile. Un tipo strano che trascorre buona parte delle sue giornate chiuso nella sua cella, facendo strani riti con frasi in greco e latino, probabilmente diabolici. Frà Gerolamo un bel giorno litiga violentemente con un giovanissimo confratello che, caso vuole, muore pochi giorni dopo mentre si reca in chiesa. Dopo pochi mesi anche Fra’ Gerolamo viene trovato morto orribilmente martoriato alla testa.

Da allora strane voci simili ai riti pronunciati dal frate risuonano nel pieno della notte sia fuori che dentro il convento; la cella di fra’ Gerolamo diviene luogo di strani avvenimenti che inducono il priore a celebrare una benedizione molto lunga per disinfestare la stanza. Cosa che pone fine alle turbolente sequenze di avvenimenti diabolici nella cella, ma non nel convento dove ancora riecheggiano le voci del maligno. Trascorsi alcuni anni, una fanciulla abitante vicino al convento, esce la sera da casa attratta da pianti e urla strazianti all’angolo dell’isolato. Passano pochi minuti e la madre, che va a cercarla non vedendola rientrare a casa, vede sulla strada il muro rosso e bagnato: il corpo della fanciulla è riverso per terra, la sua veste inzuppata dal sangue e la testa orribilmente deformata. Come era successo a Frà Gerolamo!

La madre addolorata si mette ad urlare di dolore e si scioglie in un lungo e penoso pianto. E’ il giorno dell’anniversario della morte del frate! La fine della dolce fanciulla sconvolge gli abitanti di Monteleone che, il giorno dopo il funerale, collocano l’epigrafe nel luogo della tragedia, proprio di fronte al convento. “Cave a lachrymis cocodrilli”. Essa sarebbe servita di avvertimento a quanti avrebbero in futuro udito pianti di dolore e urla strazianti in quel luogo, di non curarsene per non subire una sorte orribile.

Una bella storia, anche credibile, collocata correttamente nel tempo e, probabilmente ben studiata dal suo anonimo autore. Ma apocrifa! Il racconto è intrigante, ben costruito, ma non ha alcuna relazione con l’epigrafe e con le leggende e storie di Monteleone.

Secondo Arcano, con questo pseudonimo si è firmato l’inventore del racconto pubblicato su un sito web e ripreso da tanti come attendibile, la vicenda sarebbe stata narrata circa due secoli dopo da Giuseppe Capialbi, autore di una storia in latino di Monteleone nel XVII secolo e di altri testi. Peccato che il libro o manoscritto da cui è stata ricavata, la “Historia conventuum Montisleonensium”, non sia mai stato scritto dal Capialbi, né a lui è attribuito da alcuna fonte, se non dal nostro fantasioso Arcano.