Quella classe cristallina, quel coraggio, quella mistura di impeto e malinconia non si erano mai visti prima
Venti anni fa la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire. Era un giorno difficile per me, si celebravano i funerali del mio papà. Non ricordo bene i dettagli, ma so che accadde mentre vivevo gli ultimi momenti con l’uomo che mi aveva dato vita e senso. Una giornata difficile, dunque, definitivamente lontana dalle rotte della felicità. Ma quella notizia la sconvolse ancora di più. Nessuno, più di Marco Pantani, aveva fatto sognare così tanto il pubblico. C’erano stati Alberto Tomba, certo, straripante e guascone; Pietro Mennea, un esempio ineguagliato di dedizione e tenacia, Gianni Rivera, l’eleganza ed il genio, Roberto Baggio, l’imprevedibilità e la bellezza. Ma quella classe cristallina, quel coraggio, quella mistura di impeto e malinconia, quel gorgo di sventure e risorgenze non si erano mai visti. Insomma, quel 14 febbraio del 2004, giorno per elezione e destino dedicato all’amore ed agli innamorati, cadeva la stella più luminosa del panorama italiano e gettava un’ombra sinistra su quell’Italia che si affacciava timida al nuovo millennio.
E così, mentre piangevo mio padre, iniziammo tutti a piangere anche il ‘Pirata’, così lo chiamavamo, per via di quella bandana picaresca, a mò del Long john dell’Isola del Tesoro, che indossava come un mantra. Una bandana che era anche il suo grido di battaglia: quando la salita si faceva dura ed il gioco audace, Marco ci avvisava e se la sfilava quello era il segno, stava per attaccare. E se attaccava, non ce n’era per nessuno. Nemmeno ci fossero stati i grandi sempre, Gino Bartali, Eddy Merckx, Federico Bahamontes, Cisco Galdos, Manuel Fuente, Hugo Koblet, Charly Gaul. Solo Fausto Coppi, forse, ci sarebbe riuscito. E noi lì, attaccati alla televisione, a cercare tra le immagini sfocate la sua mano destra lasciare il manubrio, sfilare il segno del pirata e lasciar partire quelle gambe prodigiose verso il sole della vittoria. Ed ogni sua vittoria non era mai banale, era già leggenda. Come quella volta al santuario di Oropa, era il 1999, quando, ai piedi della salita, a pochi chilometri dal traguardo, un incidente meccanico lo costringe a fermarsi, a sistemare la bici che si era ingrippata ed a ripartire con circa un minuto di ritardo dal gruppo dei migliori. Chiunque si sarebbe arreso. Lui invece riparte calmo, inizia a macinare ritmo e potenza e, ad uno ad uno, li riprende tutti, fino ad andare in fuga ed arrivare in cima al santuario con circa un minuto di vantaggio. Santuario Mariano, da allora anche Santuario Pantaniano. Per non dire delle altre imprese, come la prima, quella dell’Aprica del 1994, in cui d’improvviso, dentro le solide certezze di quel tempo di campioni che si chiamavano Indurain, Berzin, Zuelle, Tonkov, si accende una nuova stella, che lascia tutti stupiti ed estasiati.
La stella che si era accesa nel firmamento del ciclismo degli anni novanta
Stella destinata, come quelle appena nate, ad espandersi. Sin dal giorno dopo, quando Marco compie un’impresa ancora più leggendaria, scala come fosse una collinetta il mitico Mortirolo, fissa il record di scalata, e giunge solitario al traguardo, nel tripudio incantato della gente. In quel giro sarà ‘solo’ terzo, ma chiunque voglia ricordare qualcosa di quell’edizione, non potrà che tornare a Marco Pantani, la stella che si era accesa nel firmamento del ciclismo degli anni novanta. E poi, nonostante le ripetute sfortune, eccolo vincere alcune tra le salite più importanti del ciclismo, sulle Alpi o sui Pirenei e, nello stesso anno, il 1998, addirittura il Giro ed il Tour, una doppietta riuscita solo ai grandissimi della storia. Ricordo ancora il suo primo giorno in maglia rosa, non era più giovanissimo, aveva 28 anni ed era al Giro del ‘98. Non c’era riuscito prima non perché non avesse saputo, ma perché non aveva potuto. Già, perché nel corso della Milano-Torino del 1995 gli capita un incidente che solo a lui poteva capitare, un’auto più pirata di lui si immette in contromano nel tracciato e lo investe rovinosamente. E’ destinato ad una zoppia eterna, ma lui non demorde, decide che vuole tornare ad essere uomo ed atleta e che senza una bici ed una montagna non sarebbe vita. Così sarà. Salta quel che resta del 1995, tutto il 1996 e torna nel ’97 al Giro d’Italia. Stava ancora cercando, come si dice, ‘la gamba’ che un gatto, pare nemmeno nero, attraversa la corsa e chi prende in pieno? Lui, Marco, che, dopo due anni infiniti di attesa e sacrifici, è costretto nuovamente ad abbandonare. Ritorna al Tour del 1997 e vince clamorosamente alcune tappe, di quelle che contano e restano. Poi, finalmente, la quiete del 1998. Non succede nulla di male, incredibile. Domina il Giro, domina il Tour e, vincendo delle tappe leggendarie, come quella de Le Deux Alpes, entra nella storia. E’, ormai, la stella numero uno del ciclismo mondiale, non per quanto vince, ma per come vince. E non è solo uno sportivo, è un marchio, un’idea, un modo di essere. Quando vince il Giro, pensa di poter chiudere lì, riposarsi e lasciar perdere il Tour. Ma il suo mèntore, Luciano Pezzi, l’unico ad aver creduto in lui dopo l’incidente di Torino ed avergli cucito addosso una squadra, la Mercatone Uno, lo incita ad entrare nella storia, di andare al Tour. E, quando lo vince, mentre il sudore ancora cola, la dedica è per lui, Luciano Pezzi, deceduto appena qualche giorno prima. Inizia il 1999, l’ultimo del secolo e del millennio, e lui vuole lasciare altri segni. Sente di essere addirittura più forte del ’98 e si presenta al Giro, contrariamente agli altri anni, già pronto. Non ce n’è per nessuno.
Madonna di Campiglio e quei valori di ematocrito strani
Vince in salita la prima, la seconda, la terza. Compie imprese da leggenda, con quella bandana continuamente tirata giù e la pelata a brillare come un fioretto al sole. Finchè si giunge al 5 giugno e si è a Madonna di Campiglio. E’ primo in classifica, una eternità sul secondo, il buon Ivan Gotti, e la certezza di vincere anche quell’ultima erta, prima della vittoria finale. E’ mattino presto e nella camera di Marco bussano gli uomini dell’antidoping. Poco male, lui si sottopone ogni giorno agli esami ed è sempre tutto a posto, soprattutto con l’ematocrito, il valore che misura i globuli rossi nel sangue e che, secondo l’Unione Ciclistica Internazionale, non deve superare la soglia del 50%. Marco, con il suo carisma, è tra quelli che hanno chiesto quegli esami, per dimostrare trasparenza e lealtà sportiva. Ebbene, viene fuori un valore fuori misura di un qualche zero virgola. Sospeso per quindici giorni ed escluso da un Giro che aveva già vinto. Un colpo durissimo al suo personaggio di ragazzo per bene, magari a volte un po’ guascone con quella bandana e quel tingersi di rosa e giallo nei giorni della vittoria, ma pulito, segreto, malinconico, riservato. Un colpo ancora più duro alla sua reputazione di sportivo tutto talento e senza macchia, che aveva dato anche la salute per lo sport. Pantani decide immediatamente di replicare gli esami presso un centro specializzato, nella stessa mattinata. Esito al di sotto del 50%, regolare. Ma le controanalisi, ancora misteriosamente, gli danno torto. Si verrà a sapere che i contenitori del suo sangue non erano classificati e che chiunque, volendo, avrebbe potuto manipolarli. Così, decide di farla finita con il ciclismo. Avrebbe potuto riprendere subito dopo il Giro ed andare al Tour e vincerlo. Ma non c’è niente da fare, se per tutti è diventato un dopato, la sua onorabilità, il suo nome valgono più di ogni ambizione. E non ha più neppure Luciano Pezzi a parlargli e convincerlo. Decide di rimanere solo con i suoi fantasmi, la sua vergogna e le sue paure e lascia andare anche il 1999.
Il ritorno nel 2000 e le certezze perse del Pirata
Ritorna il 2000, ma non sarà mai più Marco Pantani. Qualche sprazzo, certo. Vincerà delle tappe memorabili, batterà addirittura il dopato vero, Lance Armstrong, quello a cui la federazione internazionale revocherà tutte e sette le vittorie al Tour, ma il Pantani che sconvolge la corsa e lascia attoniti i suoi avversari non lo vedremo più. Poi, un rosario di dolore, sofferenza, abbandono. Si chiude in solitudine, si consegna alla cocaina, si smarrisce nei marosi della vita, finche, quel maledetto 14 febbraio 2004, solo in un albergo algido di Rimini, viene trovato riverso, in una camera sconvolta dal disordine, circondato da fogli autografi e disseminati, in cui grida la sua voglia di giustizia e di verità. Suicidio, si dice. Oppure overdose. Oppure omicidio, magari avvenuto dentro l’ambiente criminale dello spaccio di stupefacenti. La seconda versione è quella ufficiale, la terza è quella per cui, con tenacia ed ostinazione, si sta battendo la famiglia. La prima è quella che meno c’entra con la sua morte, ma che più c’entra con il suo ultimo segmento di vita: annullarsi, respingersi, chiudersi.Oggi sono vent’anni, ma la figura di Pantani è più bella, nitida e cristallina che mai. E orno nepiù passa il tempo, più si ha la sensazione che la sua poetica di uomo e sportivo si erga pulita e purificata. Nessuno sportivo ha fatto sognare tanto gli appassionati ed ha esaltato, quanto lui, il valore del talento, del coraggio e della pietas sportiva. Dopo di lui, buoni campioni, niente di più. Nessuno ne ha ricordo, tutti travolti dalla fragrante bellezza del talento di Marco Pantani, l’uomo che fu fermato dalla sfortuna, dalla sventura e dagli intrighi. Il futuro ci dirà perché a Madonna di Campiglio Pantani fu fatto fuori, pare ci fossero interessi nel mondo sommerso delle scommesse clandestine e che qualcuno aveva messo sul piatto un sacco di soldi. Il tempo ci dirà, si spera, come andò. Intanto, a noi che l’abbiamo amato e difeso, spetta di ricordarlo per quello che è stato, un campione immenso, un ragazzo perbene, dai valori cristallini e dalla sfortuna pari solo alla sua grandezza.
E dove ricordarlo? Per me, che sono del profondo sud, c’è un solo posto: Il luogo dove, ancora dilettante, Marco Pantani vinse la sua prima corsa. A San Mango D’Aquino, piccolo borgo medievale, disteso sulla collina che guarda alla bellissima valle del fiume Savuto, dove, dal lato opposto, troneggia l’antico maniero di Savuto, castello che appartenne ai D’Aquino, come del resto il contiguo castello di Cleto. Un luogo magico, in cui si respira la montagna ma da dove, come accade in Calabria, ci si perde in un mare azzurro e profondo come il cielo. Lì, tra quelle erte che, in alcuni casi raggiungono il 15% di pendenza, Pantani fece il suo primo squillo. Era il 19 luglio del 1989 e la gara era la “Sei giorni del Sole”, per molti la corsa internazionale per dilettanti più importante al mondo, inventata da un grande uomo di ciclismo, Mimmo Bulzomì. E San Mango D’Aquino, con le sue viuzze, le sue ascese, il suo teatro all’aperto, la sua piazza Italia, la sua nemesi del grande San Tommaso D’Aquino, non ha dimenticato. Gli ha dedicato un intero viale, oggi viale Pantani, dove, in una sequenza di bellissimi murales, viene raccontata la sua vicenda di atleta e di uomo, con il suo volto che campeggia nel giorno della vittoria, della fatica, del ritorno. E’ in quel sacrario che occorreva andare per ricordarlo ed io l’ho fatto, circondato da una cortina di silenzio e dalle voci immaginarie della gente che, nei pochissimi anni in cui Pantani potè essere e fare Pantani, per lui impazzì e visse il sogno di un ciclismo che, con lui, si fece bellezza, arte, poesia. (P.s.Le foto originali di Pantani sono in proprietà di Mimmo Bulzomì, che le ha generosamente concesse).